lunedì 6 dicembre 2010

Racconto di Natale (perché io sono buona ... in fondo)

Tutti erano in fermento,  i  centri commerciali pullulavano di famigliole e altri soggetti umani in preda ad acquisti compulsivi. La lotta al pacchetto era estrema, ognuno  voleva  azzeccare il regalo giusto, spendere poco e fare una  discreta figura.  Si potevano osservare miti casalinghe  tramutate in Hulk  nella battaglia per  l’ultima  macchinetta elettrospaziale del caffè, quella che faceva l’espresso  al sabor do Brazil  direttamente  dal  Paranà  via   wireless. Tranquilli impiegati che pur di accaparrarsi l’ultimo modello di superplaystation 3D, con ologrammi a grandezza naturale, diventavano belve al pari di Godzilla.  La marea umana si muoveva sempre minacciosa e compatta con il  sottofondo dei classici canti natalizi. La tv inneggiava alla bontà e in quei giorni  non si parlava di crisi, d’inquinamento, di mafia, razzismo e delle altre schifezzuole che facevano  così “particolare” il paese. Al massimo veniva  trasmesso uno spottarello di due minuti della mensa della caritas con le comparse belle e ripulite che prendevano il posto dei veri  poveri, il tutto per non  destabilizzare la sensibilità  popolare.  Tutto era dolce, le signorine buonasera  mettevano in mostra i seni  contornati di cotone e cappellini  paiettati rossi. I politici non si azzuffavano, non c’erano i chi va la a go go, ne i classici: “stia zitto lei  che adesso parlo io”.  I programmi erano incentrati tutti su filmetti tipo quelli dove alla fine il bimbo povero si ritrova principe, la zitella trova l’uomo della sua vita e i cani perduti tornano a casa.  
Le chiese venivano tirate a lucido in attesa  dell’evento che avrebbe visto  gli animi pii sbadigliare durante la messa di mezzanotte. Le strade erano abbagliantemente luccicose e tutti fingevano un aria allegra per non sentirsi cretini.  Gli spargineve lavoravano ad oltranza, anche  nei paesi del sud, perché della neve non si poteva fare a meno e i narcotrafficanti realizzavano  affari d’oro grazie a queste feste.
Tutto era bello, tutto perfetto,  i vecchi venivano concentrati in capannoni affinché ci fosse più brodino per tutti, le persone diversamente abili  in palestre. I rom ricacciati a pedate  in culo nei loro posti di origine perduta nella notte dei tempi. Nessun musulmano, al limite qualche donna in burqa ma solo se era tinto di rosso e se diceva ogni tanto un “oh oh!”. Le persone di colore, se sapevano cantare,  erano obbligate  a  costituirsi presso i Gospel Choirs, altrimenti dovevano rimanere recluse a casa.
Un incanto di luci e  gioia, e sulle tavole:   panettoni di dimensioni inusitate, capitoni reali, tacchini volanti pericoli costanti, cotechini meringati, pandori farciti di mascarpone pannato con mousse ciocco burrosa e tante altre prelibatezze.
I bambini erano  i più felici e correvano a farsi le foto  con quell’enorme signore  con il costume rosso che chiamavano Gabibbo, solo pochi come me erano amareggiati.  Cazzo, ci avevano fottuto anche il Natale.

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